Questo progetto visivo vuole indagare il mondo della moda spazzatura, attraverso immagini generate con strumenti di intelligenza artificiale. Da un lato un’indagine sul “fast-fashion”, la moda veloce imposta dai colossi dell’e-commerce globale. Dall’altro una riflessione sull’intelligenza artificiale in relazione alla fotografia, uno strumento talmente potente da sfumare il confide tra vero e falso, tra reale e virtuale. Un potenziale strumento di disinformazione che, tuttavia, può rivelarsi anche un prezioso mezzo di comunicazione e creatività visuale.
Gli abiti che compriamo a pochi euro e consumiamo rapidamente hanno un enorme impatto sulla nostra vita, sul pianeta, su milioni di persone che lavorano nella produzione tessile in condizioni di miseria. Ogni anno arrivano sul mercato oltre 150 miliardi di nuovi capi di abbigliamento, principalmente provenienti da Cina e Bangladesh, che una volta dismessi finiscono sulle spiagge del Ghana, nei deserti del Cile, o che letteralmente mangiamo sotto forma delle microplastiche che inquinano l’aria e l’acqua degli oceani. E al di sopra di tutto, uno scandaloso sfruttamento di esseri umani.
Dobbiamo prendere coscienza dell’inferno che c’è dietro gli abiti che indossiamo e recuperare una certa “intimità” nei confronti del nostro abbigliamento, per promuovere una cultura sostenibile della moda e del vestire.
Il termine "obroni wa wu", che in lingua Akan significa “i vestiti dell' uomo bianco morto", è diventato un simbolo inquietante della globalizzazione e dei suoi impatti più negativi. Questa espressione, coniata in Ghana, descrive l'enorme quantità di abiti usati, spesso di scarsa qualità, che vengono importati dai paesi occidentali e venduti a prezzi stracciati nei mercati africani: “one man’s trash is another man’s treasure”.
Questo fenomeno è strettamente legato all'ascesa del fast fashion, un modello di produzione che privilegia la quantità alla qualità, generando un flusso continuo di capi di abbigliamento a basso costo e dalla vita breve. Questi abiti, una volta scartati dai consumatori occidentali, intraprendono un lungo viaggio verso le coste dell'Africa, dove finiscono per intasare discariche a cielo aperto, come le spiagge e le baraccopoli di Accra, e inquinare irreversibilmente l'ambiente. Il mercato di smistamento di Kantamanto è diventato un luogo paradigmatico di questo modello, tanto che negli ultimi anni, ospita occasionalmente persino un vero e proprio Festival del second-hand.
Le conseguenze di questo fenomeno sono molteplici e gravi. Innanzitutto, l'importazione massiccia di abiti usati danneggia l'industria tessile locale, soffocando la produzione artigianale e creando una dipendenza economica dai paesi occidentali. In secondo luogo, la scarsa qualità degli abiti importati contribuisce alla formazione di discariche illegali, contaminando il suolo e le falde acquifere. Infine, il fast fashion è responsabile di un consumo eccessivo di risorse naturali e di un aumento delle emissioni di gas serra, contribuendo così al cambiamento climatico.
Per affrontare questo problema è necessario un cambiamento radicale del nostro modo di consumare. Dobbiamo ridurre il nostro consumo di abbigliamento, privilegiando capi di qualità e di lunga durata, e sostenendo le iniziative di economia circolare che promuovono il riuso e il riciclo dei tessuti. Inoltre, è fondamentale sensibilizzare l'opinione pubblica sui danni ambientali e sociali causati dal fast fashion, e promuovere politiche commerciali più eque e sostenibili.